Villaggio Giuliani, a Bologna un piccolo borgo che accoglie i parenti dei migranti italiani della ex Jugoslavia

Entrare a Villaggio Giuliano è come essere chilometri e chilometri lontano dalla città. Eppure Bologna è lì, tutto intorno e ci passa persino sotto. Bologna è lì che abbraccia questa manciata di case sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Un abbraccio che inizialmente fu di accoglienza e che negli ultimi anni si è stretto fin troppo, tanto da diventare quasi soffocante. 

Villaggio Giuliano ospita i figli e i nipoti di chi per primo abitò quelle case: profughi Giuliani che alla fine della Seconda guerra mondiale decisero di lasciare le loro case per paura delle persecuzioni in quanto si trovarono di colpo in territorio non più italiano.  E’ un piccolo gruppo di case che, strette tra un canale e la linea ferroviaria alle spalle dell’ospedale Maggiore, furono costruite per dare accoglienza a queste famiglie nonostante nella rossa Bologna di quegli anni, e in un clima già da guerra fredda, non furono sempre ben accolti in quanto scappavano dalla Jugoslavia comunista di Tito. In ogni caso, rimasero lì. Molti trovarono lavoro in ferrovia, poi si sposarono e crebbero i figli e i nipoti che ancora abitano quelle case. 

Attualmente sono rimaste una decina di abitazioni mentre in principio erano più del doppio quelle che ospitavano una quarantina di famiglie profughe delle Tre Venezie. Le case che mancano sono state demolite, o perché venivano occupate illegalmente da chi oggi fugge da altre guerre e altre persecuzioni o, in seguito, nel 2000, alla costruzione del sottopasso di viale Sabena che corre sotto le loro case. Oggi la proprietà del terreno è di Ferrovie Italiane. 

Nel borgo le strade non vengono più asfaltate, nelle case non arriva il gas, l’illuminazione pubblica è ormai assente e la notte è proprio notte. Come essere chilometri e chilometri lontani da Bologna. Nemmeno i contratti di locazione vengono più rinnovati lasciando in un limbo chi oggi ci vive. La composizione del villaggio è per più della metà costituita da figli e nipoti di ex ferrovieri e dal restante di figli e nipoti di profughi Giuliani. Tra questi c’è chi è arrivato che aveva 10 anni e oggi ne ha 80, oppure chi in queste case ci è nato e orgogliosamente mostra le proprie foto d’ infanzia vicino al cancelletto con le rose e racconta che il padre, in Italia, divenne macchinista dei treni a vapore. Ma i treni a vapore oggi non corrono più e nemmeno la Jugoslavia esiste più.  

E probabilmente, a breve, nemmeno questo lembo di terra, nemmeno queste storie, nemmeno queste case. Il tutto ingoiato e omologato dalla città e dal presente. 

 

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