Associazione a delinquere finalizzata al traffico, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti: sono le accuse a cui dovranno rispondere 9 persone arrestate (6 in carcere e 3 agli arresti domiciliari) all’alba di questa mattina in un’operazione dei carabinieri di Bologna, Firenze, Messina, Viterbo e del Gruppo di Locri. Quattro dei 9 arresti sono avvenuti a Bologna. Gli accusati sarebbero affiliati ad alcuni dei più noti casati della ‘ndrangheta calabrese, attiva nell’importazione di rilevanti quantitativi di stupefacenti, soprattutto cocaina proveniente dal Sudamerica e destinati alle piazze emiliano-romagnole e toscane. In particolare, i 9 arrestati sarebbero vicini alla ‘ndrangheta calabrese, in particolare al clan Morabito-Bruzzaniti-Palamara e alla ndrina di San Giovanni in Fiore (CS). Nel corso delle indagini, infatti, diversi collaboratori di giustizia sono stati sentiti dagli inquirenti ed hanno tracciato i curricula criminali degli indagati. Tra tutti spicca quello ritenuto al vertice dell’organizzazione, Nunzio Pangallo, il quale è cognato di Rocco “Tamunga” Morabito, primula rossa del clan Morabito, noto perché, dopo aver trascorso una latitanza di 23 anni in sud America, era stato arrestato dalla polizia boliviana nel 2017, per poi evadere nuovamente nel 2019 dal carcere di Montevideo. Lo stesso Pangallo ha scontato una condanna di 15 anni per traffico di stupefacenti, durante la quale fu ulteriormente indagato perché continuava a dare ordini alla sua organizzazione dal carcere attraverso cellulari introdotti clandestinamente.
Anche per gli altri arrestati sono acclarate relazioni con famiglie ndranghetiste, pur non essendo emersi nel corso delle indagini elementi certi che possano far ritenere che le attività criminali messe in atto fossero finalizzate a favorire l’organizzazione mafiosa. Di certo, il modus operandi altamente specializzato ed i trascorsi delinquenziali della maggior parte dei componenti dell’organizzazione smantellata quest’oggi fanno ritenere che l’ambito in cui si sono mossi finora non sia estraneo ad appartenenze di quella specie.
Origine dell’indagine
Il 6 marzo 2016 la Polizia spagnola, su indicazione del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Bologna, sequestrò 505 chili di cocaina a bordo di una barca vela partita dal Brasile, che, dopo uno scalo nell’isola di Capo Verde, sarebbe giunta a Barcellona. Quel carico di sostanza stupefacente era destinato alle piazze di spaccio di Bologna e per questa operazione furono arrestate sei persone dai militari del Comando Provinciale di Bologna. Durante le perquisizioni effettuate nel corso degli arresti fu trovato un cellulare BlackBerry criptato in possesso di uno degli arrestati. Apparve subito chiaro che la presenza di quell’apparecchio particolarmente sofisticato implicava il coinvolgimento di criminali di livello molto alto. Furono necessari mesi per analizzare i dati di quel telefono e ne risultò con chiarezza che quel BlackBerry aveva comunicato con altri cellulari criptati ubicati nel centro di Bologna. Nel novembre del 2017, così, il nucleo investigativo iniziò, sotto la direzione del sostituto procuratore presso la DDA di Bologna Roberto Ceroni, un’indagine finalizzata a ricostruire la rete di persone che evidentemente era coinvolta in traffici di altissimo livello, in particolare di cocaina.
Le attività tecniche
Nel corso dei mesi emerse, pertanto, la presenza in città di alcune persone calabresi, legati in vario modo a consorterie di tipo ndranghetistico, che comunicavano tra loro attraverso l’utilizzo di telefoni cellulari criptati, acquistati all’estero. Solo l’utilizzo massiccio di intercettazioni ambientali e di software di tipo trojan, inoculati in segreto in alcuni di questi apparecchi, ha permesso di ricostruire un’organizzazione di soggetti, in gran parte “qualificati” da precedenti condanne per traffico anche internazionale di stupefacenti, tuttora dediti all’approvvigionamento di grandi quantitativi di cocaina da spacciare nelle piazze sia di Bologna che dell’Appennino toscano. Fondamentale per il gruppo criminale era l’uso di telefoni cellulari criptati (c.d. “cryptophone”) per comunicare all’interno di una rete chiusa di comunicazione, alla quale il singolo sodale accedeva solamente attraverso un cellulare che veniva fornito dai vertici dell’organizzazione. Tale circuito era costituito sia dai cryptophone (che venivano forniti solo ai membri collocati più in alto nella scala gerarchica del sodalizio), sia da apparecchi GSM (non smartphone, quindi senza traffico dati) le cui SIM erano intestate a stranieri irreperibili.
I cryptophone, del valore di 2.500-3.000 euro, venivano procurati da uno steward di una compagnia aerea albanese, che li importava in Italia sfruttando il suo lavoro. Il funzionamento di questi sofisticatissimi apparecchi è piuttosto complicato, e si basa sull’utilizzo di chiavi cifrate di difficilissima decriptazione, in mancanza delle quali l’accensione del telefono comporta la cancellazione di tutti i dati contenuti. È stato soltanto grazie all’inoculazione di un software trojan nel cellulare del “capo” dell’organizzazione che si è potuto dare un senso alle telefonate ed ai messaggi che intercorrevano tra i membri del gruppo.
Le attività di osservazione e pedinamento
Ma la grande esperienza criminale degli affiliati ha portato gli stessi a non fidarsi della tecnologia, nonostante il grado di sofisticatezza degli apparati a loro disposizione. Dopo essersi dati appuntamento, infatti, attraverso messaggi criptati, i vertici del sodalizio avevano la regola di abbandonare i telefoni a molta distanza dal luogo scelto per l’incontro. Gli investigatori del Nucleo Investigativo, allora, hanno superato questo ostacolo riempiendo alcune panchine di microspie ambientali, per poter ascoltare le conversazioni che decidevano le strategie criminali del gruppo. è stato così possibile organizzare delle operazioni di pedinamento (che spesso hanno portato i militari a dover salire su numerosi treni, usati dai soggetti per spostarsi dall’Emilia, alla Toscana, al Lazio), che hanno consentito di sequestrare in tutto 3 chili di cocaina. La sostanza, una volta analizzata nel Laboratorio Analisi Sostanze Stupefacenti del Nucleo Investigativo, è risultata con un grado di purezza del 95%. Secondo i tecnici, una volta tagliata, avrebbe potuto trasformarsi in 65.000 dosi per ogni chilogrammo sequestrato.