Coronavirus, giovane medico in prima linea: «Ho paura, ma spero di cavarmela solo con febbre e tosse» 

Il virus che ha sospeso il tempo, che ha stravolto la nostra quotidianità, che ci tiene fermi a casa e a un metro di distanza l’uno dall’altro viene affrontato ogni giorno da tutti quei lavoratori dei servizi essenziali che non si sono mai fermati, dalla sanità alla grossa distribuzione alimentare fino ai trasporti e non solo. Negli ospedali migliaia di medici, infermieri e tante altre figure fronteggiano quotidianamente l’emergenza Coronavirus. Se ansia e paura da un lato non mancano, dall’altro il senso del dovere e la consapevolezza del proprio ruolo creano l’adrenalina necessaria a non fermarsi. Dietro ogni tuta c’è un essere umano, sottoposto ad uno stress fuori dall’ordinario, in uno scenario che molti paragonano a quello di una guerra. Tra le prime linee del Policlinico Sant’Orsola di Bologna c’è Paola (nome di fantasia per tutelare la sua privacy) 30enne specializzanda in medicina interna del padiglione 5 (attualmente reparto Covid-19) che ha raccontato la sua esperienza alla Gazzetta di Bologna.

Buonasera Paola, come sta? 

«Dipende da che punto di vista. Dal punto di vista fisico, sono stanca, ho mal di testa, ma complessivamente sto bene. Psicologicamente non ho una risposta univoca. Un giorno sto bene, quello dopo no. Quello che mi fa più strano è provare sensazioni molto diverse: paura, ansia, speranza, sconforto, rabbia, gratitudine, nostalgia”.  

Che effetto le fa sentire che per molti siete considerati “eroi della prima linea”? 

«Non credo di essere un’eroina, sono una persona che per le conoscenze e competenze che ha, è quella più adatta a gestire una situazione di questo tipo. Faccio il mio lavoro e cerco di farlo al meglio, oggi come ieri e (speriamo) come domani, Covid o non Covid». 

Tute, mascherine, guanti, protocolli di sicurezza, ritmi estenuanti. Vi sentite al sicuro quando lavorate? Quali sono le vostre paure? 

«No, non mi sento al sicuro. I Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) sono contati, ma sinceramente non mi sono stati mai negati. Il motivo per cui non mi sento al sicuro è che le fonti di contagio sono potenzialmente infinite e spesso non c’è il tempo e la forza di pensare a tutti i passaggi da fare per evitare il rischio. Gli occhiali che si appannano, il naso che prude, la mascherina che gratta, la necessità di tirare fuori il cellulare per vedere il principio attivo di quel farmaco, i guanti lontani, l’amuchina sull’altro carrello, la fame, la sete, la stanchezza, l’ennesimo ingresso, la domanda che ti sei dimenticato, l’infermiere che è dentro un’altra stanza, mi è arrivato un messaggio (è il pensiero di chi è a casa e si preoccupa). In mezzo a questa sequenza di eventi, come fai, per 6 o 12 ore, a tenere il punto? Ad un certo punto alzi gli occhi al cielo e sospiri: è impossibile, me lo prendo. Speriamo di cavarsela con un po’ di febbre e tosse». 

Eroi per la gente, ma dietro la tuta siete donne, uomini, ragazze e ragazzi. Come gestite i normali bisogni fisici durante un turno di lavoro?  

«Più o meno come sempre, con un sorso di acqua in meno e senza il caffè dopo pranzo. Questo per dire che il turno di lavoro dei medici è sempre molto frenetico e spesso si beve poco e si mangia a orari improbabili. In un reparto COVID queste limitazioni sono un po’ più forti per il discorso della contaminazione: ho sete ma per bere devo togliermi la mascherina, per togliersi la mascherina tocca lavarsi le mani (per la centesima volta), fare attenzione a non toccare la parte anteriore, fare attenzione a non contaminare la bottiglia, rilavarsi le mani, rimettersi la mascherina (con tutti i rituali per non contaminarla).. beh senti.. tutto sommato non ho così sete».  

Ha mai pensato di mollare o di non farcela? 

«Ammetto di aver provato invidia per chi non si è trovato a lavorare nei Covid, di aver percepito una sorta di “obbligo” nel fare qualcosa che “avevo paura” di fare. Un obbligo più che reale, morale: per come sono fatta e per ciò che penso, non mi sarei mai tirata indietro. D’altro canto, ho avuto paura: paura di ammalarmi, di trasmettere il virus a qualcuno, di non essere all’altezza, di essere inutile o addirittura dannosa, paura per me, per gli altri, per il sistema sanitario, per il mondo intero.. dove andremo a finire?»  

L’Italia, ogni giorno, attende le 18 per la liturgia dei bollettini della Protezione Civile. Da qualche giorno i numeri iniziano a restituirci un po’ di debole ottimismo, si intravedono i primi effetti delle restrizioni delle scorse settimane. Si intravede anche in corsia questo ottimismo? Qual è la situazione nel suo reparto? 

«Quello che mi porterò dietro alla fine di tutto ciò è un enorme senso di gratitudine nei confronti dei miei colleghi, dal primario allo specializzando del I anno, che anche nei momenti più difficili hanno detto o fatto qualcosa che mi ha permesso di svolgere il mio lavoro come in un giorno normale. Questo per dire che l’ottimismo, nella mia piccola corsia di piccola specializzanda che ancora ci crede, non è mai mancato. Nessuno si è mai sognato di gettare la spugna o ha detto “basta, è impossibile, non ce la facciamo”. Non ho mai respirato un’aria di resa, all’inizio come adesso. Detto ciò, ho deciso per il mio quieto (si fa per dire) vivere, di stare alla larga dai bilanci, dai numeri e dalle percentuali. Domani studierò tutti i grafici, le curve, le parabole e le iperboli.. Promesso». 

Qual è la prima cosa che farà quanto tutto questo sarà finito? 

«Mi riaggancio alla prima domanda, non ho una risposta univoca. A volte mi immagino su un treno diretta verso mio nipote che per adesso ho visto solo su FaceTime, a volte a fare il bagno nella fontana del padiglione 5 con i miei colleghi, a volte semplicemente seduta dal parrucchiere a tagliarmi i capelli troppo lunghi. Non nego che la cosa un po’ mi spaventa, ma adesso non ho tempo per pensarci, visto che devo vestirmi e andare a fare la notte». 

intervista di Gabriele Caforio 

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