Siamo nel 1816, in estate. O meglio, in quella che avrebbe dovuto essere l’estate del 1816 ma che, a causa dell’eruzione del vulcano indonesiano Tambora, si era trasformata in una non-stagione costringendo ogni continente a temperature ben al di sotto della media. Anche l’aria di Ginevra è avara di sole. In questo anno senza estate, la giovane Mary Shelley, durante un soggiorno in Svizzera insieme ad alcuni amici, scrive quasi per gioco il più famoso romanzo gotico dell’Ottocento, Frankenstein, ispirato da un terribile incubo avuto nelle notti precedenti.
Le origini del mostro
Il genio della scrittrice inglese, tuttavia, oltre che ai propri sogni, ha attinto a piene mani dalla realtà: è infatti risaputo che la giovane immaginò gli esperimenti del dottor Frankenstein ispirandosi alle ricerche dello scienziato bolognese Luigi Galvani sulla stimolazione muscolare, che avevano aperto la strada a una nuova teoria, il galvanismo. Proprio a questi studi Mary Shelley fa esplicito riferimento al termine del secondo capitolo. In esso il dottor Victor Frankenstein, ripercorrendo la sua infanzia trascorsa a Belrive, ricorda un tuono abbattutosi con inaudito fragore contro un albero. Il giorno seguente, accorso sul luogo, racconta:
“Prima di questo fatto io non ero all’oscuro delle più ovvie leggi dell’elettricità. In questa occasione era con noi un uomo di grandi studi in filosofia naturale che, eccitato da questa catastrofe, si addentrò nella spiegazione di una teoria sull’elettricità e sul galvanismo, che era per me nuova e sorprendente”
In effetti Luigi Galvani ebbe il merito di imprimere un considerevole impulso alle teorie sulla natura dell’elettricità, in una disciplina che non conosceva considerevoli passi avanti dall’età antica. Divenuto Anatomico Ordinario dello Studium nel 1763, egli poté lavorare per oltre trent’anni alle sue teorie, utilizzando come cavie delle rane: il suo famoso esperimento del 1786 fu condotto proprio utilizzando un esemplare di questo animale. E, del resto, la statua che si trova nell’omonima piazza di Bologna lo raffigura nell’atto di mostrare le contrazioni di zampe di rana. Galvani raggiunse la massima notorietà nel 1791, quando, con la pubblicazione del “De viribus electricitatis in motu musculari commentarius“, riuscì a dimostrare l’esistenza di cariche elettriche negli animali.
Riportare in vita i morti
Come mai, però, Mary Shelley era a conoscenza di studi specialistici di recente acquisizione, peraltro maturati in un paese tanto lontano come l’Italia? Il trait d’union tra la scrittrice e Galvani pare sia stato il nipote di quest’ultimo, Giovanni Aldini. Giovanni, seguì le orme dello zio, approfondendo i suoi studi senza però conseguire risultati di eccezionale importanza. Ciò che lo rese particolarmente famoso in Europa furono invece i suoi esperimenti sulla rianimazione dei cadaveri mediante corrente elettrica. Si diceva che fosse ossessionato dall’idea di poter riportare in vita un uomo morto tramite l’utilizzo di un’enorme pila.
La volta che giunse a Londra, Giovanni Aldini organizzò un gran numero di letture e dissezioni pubbliche al teatro anatomico cittadino, al Guy’s Hospital, alla sala conferenze George Pearson e al Royal College of Surgeon. Proprio in quest’ultimo, il 17 gennaio 1803, ebbe luogo un macabro esperimento in cui il cadavere dell’omicida George Forster fu collegato ad una batteria della potenza di 120 Volt. Tra lo stupore dei presenti, il corpo si produsse in spasmi involontari, angosciosi respiri e smorfie di dolore seguite a breve distanza da convulsioni.
Intuizioni narrative
All’epoca dei fatti la giovane Mary Shelley aveva appena 6 anni. Difficilmente, quindi, avrà assistito di persona a un evento del genere. È però assai probabile che il racconto dei familiari o di qualche testimone oculare avesse prodotto nella ragazza una grande curiosità, alimentata in età più matura dai resoconti dei giornalisti del Times. Così, quando la scrittrice si trovò a dover creare una storia dall’ambientazione gotica e tenebrosa, le tornarono in mente i racconti di quando era bambina; ripensando alle elettrificazioni di corpi umani, Mary Shelley ebbe la geniale intuizione narrativa di chiedersi: “…e se l’esperimento di Aldini fosse riuscito?”.
un articolo a cura di Giovani Reporter